Velocità della Luce

Velocità della Luce

SULLA VELOCITÀ DELLA LUCE
In base alle equazioni di Maxwell, la velocità della luce è c = (ε0μ0)^(-1/2) essendo ε0, μ0 la costante dielettrica e la permeabilità magnetica di quel particolare mezzo che oggi i fisici chiamano vuoto quantistico. Poiché per Maxwell, come per tutti i fisici dell’epoca, non c’era alcun dubbio che le onde elettromagnetiche si propagassero nel fluido, allora noto come etere luminifero, c dovrebbe essere la velocità della luce rispetto all'etere e, quindi, ε0, μ0 sarebbero la costante dielettrica e la permeabilità magnetica dell’etere.
L’esistenza di un fluido per la propagazione delle onde elettromagnetiche è stata postulata poiché ogni onda si propaga in un mezzo e la sua velocità è relativa a tale mezzo. La velocità delle onde sonore è relativa all'aria, la velocità delle onde marine all'acqua, la velocità delle onde sismiche al suolo terrestre. Al variare delle particolari condizioni fisiche del mezzo varia la velocità dell’onda. Sappiamo, in base a dati sperimentali, che rispetto al mezzo in cui si propaga, la velocità di un’onda, qualunque sia la sua natura, non dipende dal moto della sorgente che la emette. Pertanto, la velocità del suono dei motori di un aereo non dipende dalla velocità dell’aereo e la velocità del fischio di un treno non dipende dalla velocità del treno. In un fluido, la velocità delle onde prodotte da una sorgente in moto non dipende dalla velocità della stessa sorgente.
La luce, essendo un’onda, non fa eccezione. La velocità delle onde elettromagnetiche, nell'etere, qualunque cosa questo sia, non dipende dalla velocità della sorgente luminosa che le emette. Pertanto possiamo dire che la velocità di qualsiasi onda, anche della radiazione elettromagnetica, rispetto a un osservatore fermo nel mezzo in cui essa si propaga, non dipende dalla velocità della sorgente.
Con l’affermarsi della relatività speciale (RS) e l’abbandono dell’etere, quasi tutti i fisici hanno accettato il principio della costanza della velocità della luce nel vuoto. Senza etere non si poteva più parlare di velocità assoluta ma solo di velocità relativa di un corpo rispetto a un altro. Poiché il moto di qualsiasi sorgente luminosa è relativo all'osservatore, Einstein ha assunto come principio della Relatività Speciale (RS), il seguente: nel vuoto la velocità c della luce è costante, ossia è la stessa per tutti gli osservatori inerziali. Secondo la RS la velocità della luce non dipenderebbe né dal moto della sorgente, né dal moto dell'osservatore inerziale che la misura.
Tale principio è diretta conseguenza dell’esperimento di Michelson-Morley e della convinzione che non esiste un riferimento assoluto rispetto al quale misurare la velocità della luce. In seguito all'esito, ritenuto negativo, dell’esperimento di Michelson-Morley, è maturata l’idea che l’etere non esiste, nonostante lo stesso Michelson e altri fisici di primo piano come Lorentz, fossero, invece, fermamente convinti della sua esistenza.
Ma l’etere, come veniva concepito nell'Ottocento, aveva proprietà tra loro incompatibili, se rapportate ai fluidi reali, e, pertanto, non poteva essere accettato.
Nella teoria dei gravitini (le particelle che costituiscono l’energia oscura EO), la velocità della luce dipende dalla densità dell'EO detto anche spazio assoluto o fluido cosmico (FC); quindi è costante soltanto nelle regioni di spazio dove il fluido cosmico ha densità costante.
A causa del parziale assorbimento dei gravitini da parte della materia che attraversano, in prossimità di un astro molto massiccio, dove la densità del fluido gravitinico è minore che lontano da esso, anche la velocità della luce è minore. Per tale ragione la luce si flette in prossimità di una stella e l’angolo di deflessione è funzione del potenziale gravitazionale che, a sua volta, dipende dal gradiente della densità del fluido cosmico.
Se le proprietà del vuoto possono variare nel tempo, e da luogo a luogo, come oggi i fisici credono, allora dovrebbero variare anche ε0 e μ0 e, di conseguenza, anche c.
Perché, rispetto al mezzo in cui si propaga, la velocità della luce, o di qualsiasi altra onda, è indipendente dal moto della sorgente? La spiegazione fisica è la seguente: le onde di qualsiasi natura, i fotoni e tutte le particelle prive di massa, sono pura energia; non essendo oggetti materiali non hanno inerzia e pertanto la loro velocità non può conservare traccia del moto della sorgente che li emette. La velocità della sorgente può, comunque, essere dedotta tramite l’effetto Doppler, ossia analizzando la frequenza dell’onda.
Il tempo che un fotone impiega per allontanarsi, o avvicinarsi, di una data distanza da un osservatore inerziale, dipende dal moto dell’osservatore. Alcuni obiettano che non è possibile calcolare la velocità di un RI rispetto al fluido cosmico. Invece, così com'è possibile misurare la velocità della Terra rispetto alla radiazione cosmica di fondo, analogamente, con strumenti adeguati, potremmo misurare la velocità del laboratorio in cui effettuiamo gli esperimenti, rispetto allo spazio assoluto.
La luce non ha inerzia e, per tale ragione, quando si allontana dalla sua sorgente luminosa S, la sua velocità assoluta non conserva traccia del moto di S, è indipendente dal moto di S. Invece la velocità relativa della luce dipende dal moto dell’osservatore inerziale R che la misura. La velocità c è costante per R solo se egli è fermo nel FC. R può calcolare la velocità relativa di S solo tramite l’effetto Doppler.
Consideriamo una sorgente luminosa S posta in una estremità di un vagone ferroviario che procede con velocità costante v. Quanto tempo impiega un impulso luminoso emesso da S per raggiungere uno specchio P che si trova all'altra estremità del vagone, riflettersi e ritornare in S? Un osservatore R fermo sul marciapiede, per calcolare il tempo t che impiega l’impulso luminoso per compiere tale percorso, attenendosi al principio che la velocità della luce non dipende né dal moto della sorgente, né dell’osservatore, fa questo ragionamento. Sia d la lunghezza del vagone. Nel tempo t1 che la luce impiega per raggiungere P, questo va incontro alla luce con velocità v e quindi percorre lo spazio s = vt1. Consegue
d-s = ct1 per cui t1= d/(c+v).
Analogamente, detto t2 il tempo per ritornare in O, si ha t2 = d/(c-v) e quindi t = t1 + t2 = dc/(c^2 - v^2).
Ma se R assume che la velocità della luce rispetto allo specchio sia c+v all'andata e c-v al ritorno, trova gli stessi valori per t1, t2 e t. L’osservatore T sul treno, come R e qualsiasi altro osservatore dell’Universo, in generale non è fermo rispetto al FC e, pertanto, non può pretendere che la luce impieghi lo stesso tempo all'andata e al ritorno. Egli, non conoscendo la sua velocità v rispetto al FC, può solo misurare il tempo complessivo
t = t1 + t2 = 2dc/(c^2 - v^2),
non separatamente t1 e t2. Però da tale espressione può dedurre la sua velocità nella direzione del raggio luminoso
v = c(1 - 2d/ct)^(1/2).
Ricordiamo che la velocità della luce sulla Terra è stata sempre misurata nel percorso ABA di andata e ritorno, mai nel percorso di sola andata da A allo specchio B. Quindi c rappresenta la velocità media c = (c1 + c2)/2.
Perché le particelle cariche, come elettroni e protoni, non possono raggiungere e tanto meno superare la velocità della luce, come effettivamente dimostrano innumerevoli esperimenti effettuati in tutto il mondo? Per lo stesso motivo per cui non possiamo colpire un bersaglio mobile che si allontana più velocemente dei proiettili che spariamo su esso, per lo stesso motivo per cui una persona che si allontana da noi, e ascolta la nostra voce, non può essere più veloce della propagazione del suono nell'aria, per lo stesso motivo per cui una semplice barca a vela non può essere più veloce del vento che la spinge.
In base all'elettrodinamica quantistica la forza tra due cariche elettriche è mediata da fotoni virtuali. Una carica, per quanto intensa e duratura possa essere la forza elettrica ad essa applicata, non può raggiungere, nello spazio assoluto, la velocità dei fotoni virtuali che trasmettono la forza perché, in tal caso, non potrebbe esserci alcuna spinta, o impulso, da parte degli stessi fotoni virtuali, la cui velocità è c. Se poi si tiene presente anche la resistenza del fluido gravitinico, si capisce che la velocità assoluta di qualsiasi carica elettrica deve essere sempre minore di c.
L’unica altra forza che può agire su una qualsiasi particella materiale macroscopica è quella gravitazionale. Non abbiamo alcuna esperienza diretta di quale sia la massima velocità con cui può cadere un corpo su un astro collassato; in base alla RG, nonostante la limitazione imposta dalla RS, in prossimità del centro di un buco nero tale velocità è maggiore di c. Nella teoria dei gravitini un corpo, in caduta libera in un buco nero, non può superare la velocità c dei gravitini che lo spingono verso l’astro.
Per lo stesso motivo, anche ammassi e superammassi di galassie non possono avere una velocità assoluta maggiore di c, ossia maggiore della velocità dei gravitini che li spingono verso i confini dell’universo. Perciò l’ammasso locale non può avere una velocità assoluta di recessione maggiore di c. Consegue che la velocità relativa, di un ammasso rispetto a un altro, non può superare 2c. Ciò è già sufficiente per avere redshift maggiori di uno.
Comunque, se il redshift di una struttura lontana è maggiore di uno, non significa che lo spazio si dilati e, tanto meno, a una velocità maggiore di c. Significa soltanto che la luce, impiegando miliardi di anni per raggiungere la Terra, nell'attraversare il fluido cosmico si affatica e tanto più quanto maggiore è il tempo di volo. In tal caso l’energia perduta, ossia la diminuzione percentuale di frequenza, è una misura del tempo che la luce impiega per arrivare fino a noi e, indirettamente, della distanza della sorgente luminosa che l’ha emessa.
Miliardi di anni fa, quando il fluido gravitinico era più denso, anche la velocità della luce era maggiore. Ciò risolve il problema dell’orizzonte cosmico ed altri che sono stati spiegati con l’inflazione e, quindi, ipotizzando una particella, l'inflatone, la cui esistenza non è stata mai dimostrata. In prossimità di un grosso astro (collassato), ossia in un campo gravitazionale molto intenso, la velocità della luce è minore che lontano. Ciò non è in contrasto con la formula c = (ε0μ0)^(-1/2) perché i valori di ε0, μ0 dipendono dalla densità del FC. La velocità della luce, oggi, dipende dai valori attuali di ε0, μ0. In ogni caso il valore della velocità della luce è relativa al FC e dipende dalla densità di quest’ultimo.
Nella riflessione della luce su uno specchio piano l’angolo di incidenza è uguale a quello di riflessione, anche se lo specchio trasla, o ruota, mantenendosi, però, sempre sullo stesso piano, quello della superficie riflettente. Per il raggio riflesso, lo specchio funge da sorgente luminosa in moto. In particolare un raggio luminoso che incide perpendicolarmente sullo specchio viene riflesso rimanendo parallelo a se stesso.
Consideriamo un treno che, rispetto al FC, procede verso destra (Fig.1), con velocità v; siano M, N due specchi tra loro paralleli e solidali al treno e sia d la loro distanza. Vedi disegno infondo.
Un raggio luminoso AB, esce dal punto A dello specchio M in direzione normale a M; la sua velocità, come sappiamo, è indipendente dal moto della sorgente A, e quindi del treno. Esso durante il volo non è “trascinato” dal moto del treno per cui arriva in B, sullo specchio N, perpendicolarmente. Si riflette su se stesso, abbandona lo specchio N, e quindi il punto B, che si allontanano col treno, e ritorna perpendicolarmente su M, che incontra non nel punto A dello specchio, da cui è partito, ma nel punto C, a sinistra di A, perché nel frattempo il treno, e quindi M, si sono spostati verso destra di un tratto AC. Il punto B′, in figura, non è altro che il punto B dello spazio assoluto; è il treno che si sposta di AC = BB′ nel tempo in cui l’impulso luminoso percorre il tragitto ABC perpendicolare agli specchi. L’osservatore nel treno, che non sa di essere in moto, osserva che il raggio non ritorna in A, ma in C. Da ciò può dedurre che è in moto. Spesso si dimentica l’indipendenza di c dal moto della sorgente e si compone c con la velocità dello specchio, rappresentando il raggio incidente e il raggio riflesso che formano ciascuno un angolo α con la normale allo specchio, come in Fig 2.
Le considerazioni fatte permettono di sperimentare l’esistenza dello spazio assoluto e quindi del moto assoluto. Il raggio AB non è trascinato dal moto del treno, si mantiene perpendicolare ai due specchi anche se i punti A e B si allontanano col treno. A un certo punto, trascurando l’energia luminosa assorbita dagli specchi e dall'aria, il raggio non arriverà più sugli specchi perché il treno si allontana, mentre il raggio è localizzato in una regione particolare dello spazio assoluto. Il moto dei fotoni è relativo allo spazio assoluto e non è influenzato dal moto del sistema in cui si effettua l’esperimento.
Per un osservatore sul treno, i due specchi M, N e i punti A, B sono fermi; se egli crede che anche il raggio luminoso si trovi sempre nella stessa posizione rispetto a lui, allora, se sa che il treno avanza con velocità v, deve dedurre che l’impulso luminoso, che si propaga perpendicolarmente agli specchi, avanza parallelamente a se stesso, con una velocità di traslazione uguale a quella del treno. Ma ciò, come sappiamo, non accade.
Supponiamo che la larghezza l dello specchio M sia minore dello spostamento AC percorso dal treno nel tempo t che l’impulso luminoso impiega nel suo tragitto ABC: l t e concludono che il tempo scorre più lentamente per l’osservatore fermo nel treno. Il calcolo non è corretto perché, nonostante il principio d’indipendenza della velocità della luce dal moto della sorgente luminosa, essi compongono le due velocità e, tra l’altro, con la regola classica.
Ruotiamo ora di 90° il sistema dei due specchi del treno, e supponiamo che due raggi luminosi siano emessi nello stesso istante da una sorgente luminosa O posta a uguale distanza d dagli specchi (vedi Fig. 3).
Per l’osservatore R, fermo rispetto allo spazio assoluto, si ha
t(OM) = t(NO) = d/(c+v); t(MO) = t(ON) = d/(c-v)
per cui, posto v/c = β, consegue
t(OMO) = t(OM) + t(MO) = 2d/[c(1-β^2)];
t(ONO) = t(ON) + t(NO) =2d/[c(1-β^2)]
I tempi che impiegano i due impulsi luminosi per percorrere i tragitti OMO e ONO sono uguali, ma i tempi t(OM) e t(ON)per raggiungere gli specchi sono generalmente diversi, anche se di pochissimo, essendo v/c << 1.
I relativisti sostengono che per l’osservatore T sul treno sia τ(OMO) = 2d/c e, in particolare, τ(OM) = τ(MO) = d/c. Ma, come si è detto, non è stato mai possibile effettuare alcun esperimento per verificare che la luce impiega lo stesso tempo durante i due percorsi di andata e ritorno. Qualunque sia l’apparato sperimentale, e ovunque si trovi nell'Universo, è molto improbabile che esso stia fermo rispetto al FC anche se l’osservatore interno non avverte il moto rettilineo uniforme del suo laboratorio. Ricordiamo che le onde elettromagnetiche, come il fluido cosmico in cui si propagano, non sono trasportate dal treno. Questa è la differenza fondamentale tra un’onda elettromagnetica e un’onda meccanica. Il treno che trasporta aria o acqua o una sbarra metallica, trasporta anche le eventuali onde che in esse si propagano. Se un’onda sonora compie il tragitto OMO, allora, per un osservatore interno, il suono impiega lo stesso tempo per compiere sia il tragitto OM sia il tragitto MO perché l’aria è trasportata dal treno, e quindi è ferma rispetto a esso. Invece per un osservatore esterno, che giustamente applica la composizione galileiana delle velocità, i suddetti tempi risultano diversi.
Come potrebbe un fisico sperimentale, all'interno del suo laboratorio, senza ricevere informazioni di alcun tipo dal mondo esterno, capire se il laboratorio si muove rispetto al fluido cosmico, e con quale velocità? Prima di tutto deve abbandonare l’ipotesi, mai verificata, che sia t(OM) = d/c ossia che c sia la stessa all'andata e al ritorno. Deve immaginare, inoltre, che il suo laboratorio si muova con una certa velocità v, non nota, rispetto al fluido cosmico, in una certa direzione che forma un angolo α con la direzione del raggio luminoso OMO. Ovviamente neppure l’angolo α è noto. Posto β = v/c, i tempi impiegati da tale raggio sono
t(OM) = d/(c+vcosα), t(MO)= d/(c-vcosα) da cui
t(OMO) = t(ONO) = 2d/[c(1-β^2*cos^2α)]
L’osservatore deve ripetere l’operazione inviando il raggio luminoso in altre direzioni, ossia facendo variare l’angolo α. In tal modo trova valori diversi di t(OMO). Il valore massimo tmax di questi tempi, si ottiene per α = 0 e vale tmax = 2d/[c(1-β^2)].
La direzione in corrispondenza della quale t è massimo fornisce la direzione, non il verso, in cui si muove il laboratorio nello spazio assoluto. Il valore minimo tmin di t(OMO) si ottiene ruotando il raggio luminoso di 90° e vale tmin = 2d/c.
Da tmax si può ricavare la velocità assoluta del laboratorio
v = c(1 -2d/ctmax)^(1/2) che, essendo 1- (v/c)^2 = tmin/tmax, equivale a v = c(1 - tmin/tmax)^(1/2).
Bisogna osservare che, in generale, la differenza tra tmax e tmin è troppo piccola per poterla rivelare con gli strumenti attuali.
A questo punto chiunque può sentirsi confuso e, giustamente, potrebbe chiedersi se esiste una prova sperimentale a sostegno della tesi che la velocità relativa della luce varia con la velocità assoluta dell’osservatore. Tale prova esiste ed è nota come effetto Sagnac, dal nome del fisico francese che lo scoprì nel 1913.
Consideriamo una piattaforma circolare P di raggio R e sul suo bordo una serie di specchi S0, S1, S2, …, Sn disposti a uguale distanza, in modo da permettere a un raggio luminoso, emesso da una sorgente fissata in S0, e riflesso da essi, di ritornare in S0 dopo aver compiuto il percorso S0 S1 S2.…Sn S0. La piattaforma può essere sostituita da una fibra ottica circolare. Se la piattaforma non ruota, un raggio luminoso impiega lo stesso tempo per percorrere il tragitto se è inviato sia in senso orario sia in senso antiorario. Consegue che se inviamo da S0, contemporaneamente, due raggi luminosi, provenienti dalla divisione di un solo raggio, nelle due diverse direzioni, essi ritornano in S0 nello stesso istante. Mettiamo ora la piattaforma in rotazione attorno al suo asse con velocità angolare ω, per esempio in senso orario. Si osserva che in S0 i due raggi interferiscono e la figura d’interferenza varia al variare di ω e dell’area del percorso poligonale. Questo è l’effetto Sagnac. La figura d’interferenza si spiega solo se i due raggi tornano sfasati in S0 e, quindi, non nello stesso istante. Per un osservatore inerziale i due raggi non hanno percorso tragitti uguali: se 2p è il perimetro del percorso, il raggio orario, per ritornare in S0, percorre lo spazio 2p + s, il raggio antiorario lo spazio 2p – s, essendo s l’archetto di circonferenza descritto da S0 nel tempo Δt necessario ai due raggi per ricongiungersi e interferire. Si dimostra che il ritardo temporale Δt è dato dalla formula: Δt = 4Aω/c^2. A è l’area racchiusa dal percorso di ciascun segnale luminoso. La formula per il ritardo di fase si trova moltiplicando Δt per la frequenza ν = c/λ della luce usata, per cui Δz = νΔt = 4Aω/λc .
Un osservatore non inerziale, che si trovi sulla piattaforma, ovviamente è fermo nel suo sistema di riferimento e pertanto non può spiegare la figura d’interferenza se non ammettendo che rispetto a lui (all'interferometro) i due raggi abbiano velocità diversa: c+v per il raggio antiorario e c-v per il raggio orario, essendo v = ωR la velocità di rotazione di P.
Osserviamo che, essendo v << c e l’arco s tanto piccolo da potersi considerare rettilineo, anche un osservatore fissato alla piattaforma si può considerare inerziale. Infatti, il calcolo relativistico conduce alla stessa formula ottenuta con la meccanica classica. I relativisti, però, sostengono che, essendo ω ≠ 0 durante la rotazione, l’osservatore fissato a P non può essere considerato inerziale, dimenticando che anche nell'esperimento di Michelson-Morley il supporto ruota con la Terra ma, in questo caso, la figura d’interferenza non si forma. In realtà la formula Δz = 4Aω/λc è valida anche nell'esperimento di Michelson-Morley: ma qui la figura d’interferenza non si forma perché l’area del cammino ottico è nulla.
Alcuni autori hanno provato a definire diversamente il tempo sulla piattaforma per cercare di salvaguardare la costanza della velocità della luce su di essa. Hanno introdotto un tempo astratto che porta ad evidenti contraddizioni. Con tale tempo, in un punto della piattaforma un orologio, ad essa solidale, dovrebbe segnare un tempo maggiore e contemporaneamente minore di quello di un orologio normale, il che è assurdo.
L’effetto Sagnac non si manifesta soltanto quando in un fenomeno fisico è coinvolta una rotazione, ma è un effetto di validità molto più generale. Il giroscopio laser (gyro-laser) e il GPS non si potrebbero spiegare senza l’effetto Sagnac.

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pasquale.clarizio

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